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LA FRASSIA INUTILE E I PITALI D’ORO

ARTICOLO DI MARIA CONCETTA LORIA

Nel saggio Rito, festa, teatro. Etnografia delle forme teatrali e del rito-spettacolo in Calabria, contenuto nel testo Teatro in Calabria 1870-1970, edito da Monteleone (2003), l’antropologo Vito Teti indaga e descrive i riti del carnevale in Calabria. Teti inquadra questa festività, oltre che come festa del cibo e delle trasgressioni alimentari, anche come spazio teatrale, luogo di derisione e di satira. La Calabria, che da sempre risente della mancanza di una tradizione teatrale capace di tradursi in una letteratura drammaturgica, ritrova nella ritualità religiosa e nella farsa carnevalesca lo spazio della drammatizzazione. A San Giovanni in Fiore il ruolo dei suonatori e dei cantanti diventa centrale nel trasmettere contenuti che, come afferma lo stesso Teti, sono fortemente oppositivi nei confronti dei ceti dominanti. Il filosofo russo Michail Bachtin (1895-1975) descrive il carnevale come festa collettiva, strumento per eliminare le diseguaglianze sociali che trova, nella potenza del riso, una sorta di liberazione della verità dominante, dal regime esistente e dei rapporti gerarchici. In tutto questo possiamo chiederci se, nell’epoca della digitalizzazione e del profitto ha ancora un senso rimanere ancorati ad una tradizione che di fatto non produce nessuna rendita economica, pretendendo che questo patrimonio intellettuale immateriale possa rientrare nell’interesse delle politiche culturali che definiscono il valore e l’identità di un luogo. La risposta potremmo prenderla in prestito da Ovidio che in una delle Epistule ex Ponto, indirizzata al suo amico Aurelio Cotta Massimo Messalino, scrive “La risposta alla tua domanda è che niente è più utile di quest’arte che non ha utilità”.  Nel saggio postumo di Nuccio Ordine dal titolo L’utilità dell’inutile (ed. La nave di Teseo, 2023), il tema è ampiamente trattato attraverso contributi filosofici, letterari e politici, argomentazioni che si prestano, anche in termini speculativi, all’interno del dibattito locale che vede, una tradizione rituale-culturale, abbandonata, marginalizzata e ignorata da una maggioranza politica che ha come interesse prioritario il creare consensi attraverso la spettacolarizzazione della propria immagine. Sembra quasi che, nel suo discorso all’Assemblea Costituente del 10 novembre 1848, Victor Hugo, avesse ben chiaro in mente lo sviluppo, non solo della classe politica del suo tempo, ma anche di quella avvenire, concentrata sulla dissoluzione culturale del paese e, tra le altre cose, afferma che non basta provvedere all’illuminazione della città perché la notte può scendere anche nel mondo morale. E se parliamo d’illuminazione non possiamo non pensare alle numerose luminarie che decorano o deturpano la città di Gioacchino da Fiore, con il pericolo di cadere nella dissoluzione culturale di una comunità che, cedendo alle lusinghe di una classe politica concentrata solo sulla logica del profitto elettorale, rischia di ridurre sé stessa in quella sorta di “rapace pubblico” definito da Tommaso Campanella nella sua Città del Sole. È proprio questo il momento in cui la comunità dovrebbe unirsi per riappropriarsi del proprio patrimonio, quello culturale e identitario, esigendo che il denaro pubblico venga investito nella valorizzazione di quei valori essenziali e liberi dalle logiche del profitto. I pitali d’oro fabbricati, per il disprezzo del denaro, dagli abitanti dell’isola Utopia nel romanzo di Tommaso Moro, in questa nostra storia assumono un valore diverso e i pitali diventano gli sfavillanti addobbi luminosi pagati con denaro pubblico. Inevitabilmente, come ogni anno, carnevale è morto e, a San Giovanni in Fiore, questa dipartita avviene la domenica dopo il martedì grasso, nulla a che vedere con il carnevale del rito Ambrosiano, ma è solo un prolungamento che affonda nella tradizione locale, ma questa è un’altra storia.