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LA SPEDIZIONE BANDIERA IN CALABRIA

IL LORO SOGNO DI VEDERE L’ITALIA UNITA SVANI IL 25 LUGLIO 1844 QUANDO NOVE DI LORO FURONO FUCILATI NEL VALLONE DI ROVITO NEI PRESSI DI COSENZA

DI SAVERIO BASILE

Se Attilio ed Emilio Bandiera avessero soltanto tenuto conto dei consigli di Giuseppe Mazzini, non sarebbero certamente finiti davanti ad un plotone di esecuzione nel Vallone di Rovito, nei pressi di Cosenza, quel tragico 25 luglio 1844, insieme ad altri sette compagni di sventura, mentre per altri dieci patrioti si aprirono le porte delle patrie galere. In uno scambio epistolare il padre della Giovane Italiana scriveva, da Londra a Nicolò Fabrizi, uomo molto pratico e denaroso, di temporeggiare un eventuale patrocinio di una spedizione in Calabria di “ardimentosi patrioti che avessero a cuore l’Unità d’Italia”, perché i calabresi, ancora, non erano pronti per rovesciare la monarchia regnante dei Borboni. Mazzini non si spiegava diversamente il fallimento della sommossa insorta in Cosenza il 15 marzo 1844 purtroppo affogata nel sangue, che “fu origine di nuove e più fiere persecuzioni e di numerose condanne”. Dal canto suo, Attilio Bandiera, invece, fremeva convinto di un vivo e crescente fermento che si estendeva lungo tutta la penisola per cui annunziava, in una lettera spedita al Mazzini qualche mese prima, la sua ferma volontà di “cacciarsi in Italia a iniziarvi la guerra per bande”, partendo dalla Calabria. Riteneva di aver notizie fondate circa il malessere che serpeggiava nel popolo calabrese. Probabilmente la frequentazione a Corfù di Giuseppe Meluso, “uomo risoluto, prudente e fidato”, costretto a scappare dal suo paese in Sila per sfuggire alle guardie che lo inseguivano per le contese avute con la Gendarmeria e l’assidua frequentazione del Meluso di quel cenacolo di patrioti che andava sotto il nome di Società segreta “Esperia”, assiduamente frequentato da Attilio ed Emilio Bandiera e, tanti altri ancora, fu determinante. Meluso si offrì, infatti, di fare loro da guida “conoscendo palmo per palmo il territorio che dalla foce del Neto risaliva fino a Cosenza”.  Così, in ventuno, imbarcati a Corfù la notte del 12 giugno sul traballante vascello di nome “S. Spiridione”, dopo quattro giorni sbarcarono nei pressi di Crotone, puntando il loro cammino verso la città dei Bruzi, convinti di trasmettere il loro entusiasmo alle folle che incontravano. Ma ben presto si dovettero accorgere che quell’entusiasmo era solo da una parte, la loro. Arrivati alla Masseria Poerio, intanto, si accorsero subito di aver perduto un compagno, tale Pietro Boccheciampe, originario della Corsica, che dopo lo sbarco anziché dirigersi verso Nord, seguendo la comitiva, con fare circospetto, scelse di andare a Crotone a parlare con il sottintendente Antonio Bonafede al quale raccontò delle “male intenzioni” dei suoi compagni. Da quel momento iniziò da parte delle Gendarmerie Urbane, allertate dal Soprintendente di Crotone, la caccia agli esperidi. Il primo scontro si ha a Pietralònga, sotto Belvedere di Spinello, dove a morire però furono due urbani colpiti a morte da alcuni briganti soggiornanti nei paraggi che temendo il peggio per loro, spararono alla rinfusa uccidendoli, mentre gli esperidi ben nascosti dietro i cespugli alti lungo le sponde del Neto assistettero impassibili allo sconto a fuoco. Da qui la lunga marcia verso la Sila, passando sotto Santa Severina per raggiungere la Grancia del Vurdòj in agro di Caccuri dove si fermarono per ristorarsi, ma anche per cercare di capire gli umori della gente. Solo che l’incontro del Vuldòj ha avuto un impatto devastante per l’intera spedizione, perché qualcuno dei coloni al servizio della famiglia Lopez riconobbe, tra i “forestieri”, il Meluso, conosciuto in paese come Battistino ‘u Nivaru, che “aveva fama di brigante” in compagnia di un gruppo di persone abbigliate alla militare che fra di loro parlavano continuamente di “un disegno di perturbare la quiete pubblica”. (4) Sicché è stato doveroso per il fattore avvisare il padrone, D. Luigi Lopez, un notabile con incarico di sindaco di San Giovanni in Fiore, peraltro già allertato giorni prima dall’ispettore di polizia di Crotone Pagliarulo, dello sbarco dei “facinorosi” sulla spiaggia Jonica. D. Luigi Lopez ricevuto il messaggio del suo fattore mobilitò subito la Guardia Urbana di San Giovanni in Fiore che si mise in pieno assetto di guerra, al comando del capo urbano Domenico Pizzi, marciando verso l’unica strada di accesso al paese in direzione del Marchesato.  Nel primo pomeriggio il drappello dei patrioti lasciò il Vuldòj e si incamminò verso le aspre montagne di Gimmella, ma una fontana indicata dal Meluso fece loro deviare di poco il percorso, dirigendosi verso la Stràgola dove trovarono ad attenderli gli uomini della Gendarmeria: un corpo di guardia composto da duecento uomini. Non fecero in tempo neanche a bere un sorso d’acqua o ad asciugarsi il sudore, perché da quei moschetti puntati su di loro partirono a raffiche le prima pallottole che uccisero Giuseppe Miller, 32 anni e Francesco Tesei, 39 anni e ferirono Emilio Bandiera e Domenico Moro che fatti prigionieri dovettero far ricorso alle cure dei medici del luogo. Del gruppo dei patrioti, sei riuscirono a scappare, seguendo il Meluso che conosceva alla perfezione quelle campagne, anche se in un secondo tempo molti di loro si costituirono ai giudici cosentini. A nulla valsero le grida dei componenti la spedizione: “Fratelli, siamo italiani come voi. Non sparate!” Dalla Stràgola a San Giovanni in Fiore furono scene strazianti: i morti e i feriti caricati come merce sui muli; i componenti della spedizione legati dalle mani e trascinati lungo le scorciatoie e il popolo che impassibile assisteva a quella immane tragedia. Scena che fu ripetuta qualche giorno dopo, quando il 23 giugno i patrioti furono tradotti nelle carceri di Cosenza, in attesa di un processo, liquidato in trentasei giorni, che si rivelò un’autentica beffa, che portò alla fucilazione i più “sovversivi” di quel drappello: Emilio e Attilio Bandiera, Nicola Ricciotti, Domenico Moro; Anacarsi Nardi, Giovanni Venerucci, Giacomo Rocca, Francesco Berti e Domenico Lupatelli. I cronisti del tempo scrivevano del coraggio di quei patrioti che davanti al tentennamento dei fucilieri schierati nel Vallone di Rovito li incitavano a sparare al petto, perché volevano morire da eroi: “Chi per la Patria muore vissuto è assai!”, gridava Venerucci. Re Ferdinando II, per grazia di Dio, Re del Regno delle Due Sicilie, di Gerusalemme ecc., fu munifico di amnistia, sussidi in denaro, medagli d’oro e croci al merito per quei sangiovannesi che si prodigarono per la cattura degli Esperidi, partiti da Corfù con la convinzione di sollevare le popolazioni calabresi e provocare quell’agognata Unità d’Italia che solo diciassette anni dopo vide la luce.

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  1. “Storia dei fratelli Bandiera e consorti” narrata da Giuseppe Ricciardi e Francesco Lattari (Le Monnier, 1863);
  2. Meluso Salvatore, “La spedizione in Calabria dei fratelli Bandiera” (Rubbettino,2001);
  3. Meluso Salvatore “Il volto del coraggio” (Editrice Nuova Esperia, 1967);
  4. Gallo-Cristiani Attilio “L’ascensione al calvario dei fratelli Bandiera” (Editoriale Le Pagine), 1935;
  5. Bonanni-Caione “I disertori” (Club degli autori, 1970).