Agli inizi del secolo scorso, per i calabresi, Napoli era ancora la capitale del Mezzogiorno, dal momento che vi si andava con molta facilità, malgrado i trasporti fossero antiquati e precari. A Napoli, si andava da tutte le parti della Calabria, per frequentare l’università, per accompagnare i congiunti che si imbarcavano per le Americhe su traballanti piroscafi , ma si andava pure per tutta una serie di rapporti commerciali, che i calabresi tenevano con i grossisti di piazza Mercato. I benestanti ci andavano addirittura per due-tre mesi all’anno, per sfuggire alla rigidità dell’inverno o alla noia alienante della provincia, mentre le mogli approfittavano di questi soggiorni per rifarsi il “guardaroba” e poi tornare in paese ad ostentarlo. Intanto, non perdevano l’occasione, uomini e donne, per ritrovarsi la sera al salone Margherita, in Galleria per gustarsi Scarpetta o Maldacea. “Napoli è un’altra cosa” – sosteneva donna Amalia Lopez, nobildonna di alto casato, mostrando con orgoglio le foto che la ritraevano avvolta in una elegante coda di volpe bianca. “Gli aristocratici di un temo – diceva – andavano a Napoli anche per farsi fotografare, come mio fratello D. Ciccio, che faceva eseguire le sue fotografie esclusivamente dal “rinomato gabinetto fotografico del cav.Achille Mauri, in via Chiaia, 247”. A darci conferma di questo collegamento tra la Calabria e Napoli sono i numerosi epistolari che di tanto in tanto vengono alla luce: per esempio quello tra D. Antonio Oliverio, vecchio medico condotto di antico stampo e il prof. Mariano Magrassi, urologo, direttore della 1° clinica universitaria; tra il prof. Gaspare Oliverio, archeologo di fama internazionale e i professori De Petra, Sogliano e Olivieri, dell’Ateneo napoletano; tra il comm. Salvatore Perri, rappresentante di società di navigazione e Oscar Cosulich, titolare dell’omonima compagnia di navigazione “Fratelli Cosulic”. E questa era un tipo di corrispondenza non solamente convenzionale, ma investiva pure i rapporti con le famiglie e le persone, per diventare quindi un rapporto commerciale ed umano nello stesso tempo. Napoli, era dunque, veramente ed effettivamente nel cuore di tutti i calabresi che idealizzavano perfino i suoi vicoli e che ripetevano le sue mille canzoni. A questa tendenza non poteva sfuggire nemmeno un paese interno, arroccato sulla montagna, come San Giovanni in Fiore, che contava un nutrito nucleo di frequentatori fissi nella città partenopea. Non a caso le indicazioni urbane che ricordavano Napoli erano tante: dal “Caffè Bella Napoli” alla “Via Napoli Piccolo”, alla “Trattoria Zi’ Teresa” o alla “Pizzeria Gennariellu”. Era un riproporre una piccola vita di Napoli, che esercitava sui compaesani una suggestiva illusione. Ma c’era chi, Napoli, l’aveva ancora di più nel sangue e questo per una maggiore frequentazione dovuta agli inevitabili rapporti commerciali, come Ippolito De Paola, commerciante di cappelli e filati. Ad ogni ritorno De Paola, portava immancabilmente le novità della moda, le curiosità del tempo, le primizie in campo dolciario e alimentare, i primi miracolistici “ricostituenti” e, tante, tante altre cose, magari piccole che potevano destare sorpresa e ammirazione tra i clienti del paese. Così sono molti a ricordarsi ancora gli artistici “brillocchi” di corallo di Torre del Greco, le calosce di gomma, le ghette di panno o la pasta “Filippone” comprata nello stabilimento d’origine; gli estrattivi brodo conservati dalla Cirio in vasetti di maiolica o “l’emulsione Scott” e l’olio di fegato di merluzzo, noti ricostituenti reclamizzati insistentemente dai giornali illustrati dell’epoca. Ippolito De Paola portava tutto questo per distribuirlo agli amici e ai clienti, in un’opera di involontaria “réclame” e propaganda. Abbiamo ritrovato in casa De Paola, anche, una ricca e originale collezione di cartoline belle-époque – prezioso fondo di magazzino del suo negozio della “Fontanella” – e da cui emerge la floridezza e la spensieratezza di quelle classi facoltoso vissute tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Le cartoline che, per un particolare intuito del nostro commerciante-viaggiatore, riportano stampigliata la dicitura “Saluti da San Giovanni in Fiore”, “Un pensiero da San Giovanni in Fiore”, hanno suscitato un comprensibile interesse tra gli amatori delle testimonianze del passato. La presenza in negozio di quelle cartoline dimostrava la pignoleria di un carattere curioso, attento anche ai piccoli mutamenti della società del tempo. L’ambizione era quello di legare il nome del proprio paese ad un messaggio che le “Regie Poste” avrebbero portato nel mondo in una sorta di poetica pubblicità affidata a scene d’amore, a schizzi di moda o semplicemente a belle donne, raffigurate con lo stile dell’epoca, in una cornice di soffusa ingenuità, che strappa pure un sorriso se guardata con gli smaliziati occhi di oggi. Sicché, di fronte a poche linee dei disegnatori di moda (Calderara, Nanni, Colombo, Zandrino, Corbella, Marini e Bert…) che abbozzavano il volto e la sinuosità di un corpo femminile, si coglie lo spirito della moda come partecipazione ad una società che rinnova i suoi canoni e si apre alla fruizione di un bene riservato a pochi privilegiati. E, nell’osservazione attenta delle cartoline della collezione De Paola, discende una serie di interrogativi che riguardano un certo discorso sulla moda soprattutto tra i giovani di allora, la necessità di scoprire nuovi modelli di vita che stabiliscono un pur esile collegamento con un altro mondo più appetibile, ma lontanissimo. Tentare, insomma, di venire soffocati dalla mentalità chiusa ed inattaccabile di una società che non si apriva oltre le esigenze della sopravvivenza.
Saverio Basile