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LA SILA NEL PRIMO DECENNIO DELL’UNITA’ D’ITALIA

di Giovanni Greco

Il 12 dicembre 1871, a più di dieci anni dalla proclamazione del Regno d’Italia e a meno di un anno del trasferimento della capitale a Roma, il ministro delle Finanze Quintino Sella relazionò alla Camera dei deputati sull’amministrazione del demanio e le tasse sugli affari dal 1861 a tutto il 1870. Parte della relazione riguardò la Sila, demanio dello Stato sin dai tempi della conquista romana. «La Sila delle Calabrie», disse,  «dell’estensione di circa 95 mila ettari, è posta per quattro quinti nella provincia di Cosenza e per la rimanente parte in quella di Catanzaro. Ha una china assai ripida, e nella sua vasta estensione non trovasi alcun villaggio, meno quello detto di San Giovanni in Fiore. Nell’estate la Sila è deliziosa e popolata di agricoltori e pastori, che l’approssimarsi dell’inverno e la caduta delle nevi obbligano ad emigrare». Gran parte del territorio è adibita a pascolo, un’altra parte, pure di notevole estensione, è boscosa e vi sono poi zone dissodate e coltivate a cereali. Il bosco è ricco soprattutto di pini, faggi e «in minor numero» di abeti, cerri, pioppi e «altre piante silvane». Il pino vi cresce spontaneo e viene utilizzato soprattutto per la costruzione di navi. La Sila è suddivisa in Regia e Badiale, ma «attualmente la Sila Badiale non è che una notizia storica», perché il territorio che la comprendeva, concesso al monastero di Fiore dalla dinastia imperiale normano-sveva sul finire del secolo XII, dopo la soppressione napoleonica dell’Ordine cistercense agli inizi dell’Ottocento, è «ritornato per diritto sotto il regio patronato». Le popolazioni di Cosenza e dei suoi casali da tempo immemorabile hanno esercitato in Sila i cosiddetti usi civici, cioè il diritto di semina, di legnatico, di pascolo e di estrazione della pece.  Alcuni dei migliori boschi, detti camere chiuse, erano esclusi dal godimento di questi usi civici e destinati a fornire il legname per i cantieri navali del regno. Nel corso degli anni la Sila è andata costantemente soggetta a usurpazioni e occupazioni da parte di feudatari, nobili, piccoli possidenti, allevatori e massari. Costoro occupavano e recingevano abusivamente fondi più o meno estesi dell’altopiano, le cosiddette difese, destinandole a coltura e pascolo, allargandone subdolamente i confini, “assediando” le camere chiuse, ledendo i diritti delle popolazioni e senza pagare i censi dovuti. Erano così dovuti intervenire gli organi fiscali e giurisdizionali del tempo, i quali, più che alla difesa del demanio e degli interessi dei comuni usuari avevano curato sopratutto i diritti del fisco, addivenendo con gli usurpatori alla corresponsione di una prestazione «ora chiamata fida o giogatico o granetteria». «Queste transazioni, dalle quali trassero origini le prime proprietà private nella Sila, e le vendite posteriori fatte sempre dal Governo di quel tempo, in luogo di fa scemare le usurpazioni da parte dei particolari proprietari, maggiormente le facilitavano, perché le estensioni transatte, cedute o vendute non erano riunite in solo corpo, bensì sparse nell’agro silano». Le nuove usurpazioni non solo avevano recato danno al demanio, ma avevano anche privato più di centomila cittadini dall’esercizio degli usi civici sopra le terre usurpate. A risolvere questa «giurisdizione contenziosa per tutti gli affari della Sila» aveva cercato di provvedere con decreti anche il governo borbonico, istituendo un apposito commissariato, riuscendo a «reintegrare allo Stato i demani certi liquidati dal giudice Zurlo nel 1790» e condannando i possessori di molte difese al rilascio delle medesime. Ma molte sentenze passarono in giudicato e «non ebbero piena esecuzione». Anche perché molti usurpatori volevano godere degli stessi benefici concessi da re Ferdinando II di Borbone ai proprietari sangiovannesi per la cattura dei fratelli Bandiera e compagni. Negli ultimi anni del governo borbonico le somme riscosse «ammontavano a 100 mila lire circa», ma, dopo che con decreto da Rogliano del 31 agosto 1860 il generale Garibaldi aveva concesso l’esercizio gratuito degli usi civici e altre prestazioni erano state tolte dal governo, le entrate erano scese a meno della metà. Nel 1860 i redditi riscossi dal demanio silano erano stati di poco più di 36 mila lire e negli anni successivi erano scesi ancora per raggiungere un’entrata media tra le 40 e le 50 mila lire nel quinquennio 1866-1870. Con esclusione di un forte calo nel 1868, dovuto al «mancato affitto di pascoli, a causa del brigantaggio che infieriva nella Sila».  Anche il nuovo stato unitario sabaudo con una serie di provvedimenti tentò in qualche modo di dare soluzione all’annosa e controversa “questione silana”. Ma poi nel 1876 il parlamento approvò una legge a favore dei proprietari-usurpatori.