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LA FESTA DELLA VENDEMMIA

QUANDO AD OTTOBRE L’UVA ERA AL PUNTO GIUSTO PER DIVENTARE VINO ENEBRIANTE

di Saverio Basile

Chi possedeva una vigna estesa e ben coltivata veniva considerato un benestante. Infatti, la vigna, oltre a produrre l’uva per fare il vino, offriva altri frutti della terra che costituivano il vittu per tutto l’anno, sicché il proprietario  non aveva bisogno di andare  a lavorare sotto padrone. Inoltre, riusciva ad allevare con le castagne e la frutta di cui disponeva due o tre maiali dalla cui vendita poteva  ricavare denaro contante per le altre necessità  della famiglia. Certa la vigna richiedeva molta fatica, ma i proprietari non risentivano più di tanto dello sforzo consumato nella sua coltivazione, anche perché essi si trasferivano in campagna con tutta la famiglia e vi lavoravano, senza distinzione, maschi e femmine. Tutti in quei due o tre mesi l’anno che precedevano la vendemmia, facevano il loro dovere, lavorando con piacere, in assoluta libertà, senza l’assillo del soprastante. Agli inizi di ottobre si organizzava la vendemmia che di solito veniva fatta di sabato  o di domenica perché la vendemmia, sostenevano gli anziani, è una festa e non può essere che celebrata o di sabato o di domenica. Si riceveva un notevole aiuto dai contadini del vicinato che mettevano a disposizione gli asini, i fìscini, le cuofine e in alcuni casi anche il parmientu che non tutti i vignaiuoli possedevano, specie chi non aveva una vigna grande. La vendemmia era un rito che riusciva ad esprimere gioia per tutti, piccoli e grandi: se ne dava voce la sera prima da una parte all’altra della montagna e la notizia faceva subito il giro delle caselle per cui chi era intenzionato a dare una mano andava di buon mattino, nella vigna da vendemmiare per raccogliere l’uva dalle viti ad antu. Non si lasciava neppure un grappolo d’uva da vendemmiare, fatta eccezione per le mpennitine di uva bianca da mangiare la sera di Natale e, una volta riempito il proprio paniere, ognuno provvedeva a versarne  il contenuto nelle grandi ceste disseminate nella vigna. Quando le ceste erano colme ci pensavano le donne a trasportarle sul capo fino al palmento. Qui gli uomini più validi erano intenti a pigiare a piedi nudi l’uva raccolta, faticando non poco, in una specie di danza ritmica che man mano serviva  ad assestare la montagna di grappoli da cui cominciava  a scolare copiosamente il mosto profumato di zibibbo e malvasia. L’uva veniva pigiata due o tre volte perché anche l’ultima goccia di nettare potesse diventare vino inebriante. Ad una certa ora della giornata, quando il grosso della vendemmia era ormai fatto, ci si abbandonava tutti allo scialamientu, mangiando e bevendo allegramente cibi appetitosi e piccanti, opportunamente  innaffiati dal generoso vinello ottenuto dai vitigni di Cràvia, Nieliu e Mancu e Scavu.  Dopo cena si ballava sull’aia al suono di una fisarmonica o di una chitarra battente e si cantava a squarciagola fino a notte tarda, mentre l’eco degli altri cori proveniva in lontananza da altri vigneti, dove si era celebrata la vendemmia e la valle del Lese riecheggiava di fragorose risate di donne. Il mosto ormai raccolto nel grande tino si apprestava ad andare in fermentazione, iniziando così il complesso processo di vinificazione. All’indomani le donne palesemente stanche cominciavano a lavorare la vinaccia per distillarne l’aggressiva paisanella e a mettere a cuocere il giusto quantitativo di mosto che, ridotto di un terzo, forniva il dolce vinucuottu per il fabbisogno dell’anno.