Introduzione
Anche se tra le due guerre, durante il ventennio fascista, talune grandi attività bonificatrici intraprese da enti particolari, come l’Opera Nazionale Combattenti, sono state di fatto veri e propri atti di riforma dei rapporti giuridico-sociali fra l’uomo e la terra che si conclusero con la formazione di aziende contadine, è solo dopo la seconda guerra mondiale che la riforma fondiario-agraria propriamente detta si avvia ad essere attuata precisandone il concetto secondo tre obiettivi: 1. procedere ad una equa ridistribuzione della proprietà fondiaria eccessivamente concentrata in monopoli terrieri; 2. combattere la disoccupazione cronica di grandi masse di lavoratori agricoli avventizi fissandoli stabilmente sulla terra; 3. diffondere, nella misura massima possibile, la proprietà coltivatrice. E’ in questo contesto che, nel 1947, con legge n° 1629, venne istituita l’Opera per la Valorizzazione della Sila – O.V.S. – con il compito di promuovere ed effettuare direttamente la trasformazione fondiario-agraria dell’Altipiano silano, tenendo conto della vocazione agrosilvopastorale del territorio, con facoltà di eseguire le necessarie opere di bonifica imponendo ai proprietari gli obblighi relativi, di favorire la colonizzazione nonché lo sviluppo turistico. Si trattava di intervenire in un ambito di ben 170 mila ettari classificato come “comprensorio di bonifica di seconda categoria”, pressoché privo di infrastrutture e poco antropizzato, nel quale l’unico centro urbano di un certo rilievo era, come lo è tuttora, San Giovanni in Fiore. Successivamente, il 12 maggio 1950 venne promulgata la legge n° 230, la cosiddetta “Legge Sila” che nasceva nel contesto delle agitazioni contadine alla fine della seconda guerra mondiale e della riforma agraria resa necessaria per l’arretratezza e la permanenza del latifondo in certe zone del Sud, riforma agraria in quanto prevedeva non solo la redistribuzione più equa della proprietà fondiaria, ma anche il complesso di opere di bonifica e di colonizzazione contadina delle terre incolte. Di fatto la “Legge Sila” prevedeva la riduzione del potere e delle dimensioni delle proprietà agricole dei grandi latifondisti, espropriandone una parte e suddividendola in piccoli appezzamenti. La legge fu poi completata dalla Legge Stralcio n° 841 dell’ottobre dello stesso anno e da successivi decreti che in pratica estendevano gli effetti della riforma ad altri territori rurali del Paese, prevedendo la creazione di numerosi enti di riforma per ogni area geografica, incaricati di occuparsi dei miglioramenti fondiari, della costituzione di capitali di scorta, dello sviluppo di industrie di trasformazione collegate, nonché di opere sociali per la cooperazione, l’assistenza e l’istruzione professionale. A seguito di queste due leggi, fu affidato all’O.V.S. anche il compito di attuare la riforma agraria, in Sila e nel Marchesato di Crotone, e quindi di provvedere all’esproprio e alla ridistribuzione dei terreni a famiglie contadine, oltre alla sua trasformazione e colonizzazione, allo scopo di costituire piccole unità produttive – le cosiddette quote, di circa 1 ettaro, ed i cosiddetti poderi, mediamente di 5 ettari con annessa casa colonica, da assegnare a famiglie di contadini, braccianti agricoli ed altri, da insediare stabilmente sul territorio mediante la realizzazione di villaggi rurali borghi, centri di servizio che dovevano servire ad attrezzare l’Altipiano silano, storicamente poco abitato, e trasformarlo ai fini produttivi. E’ nel contesto di questo storico periodo della trasformazione dell’Altipiano silano che si colloca l’avvio dell’esperienza professionale di ricercatore vissuta dal Dr. Gilberto-Antonio Marselli, all’epoca giovane laureando alla Facoltà di Agraria di Portici, allievo del Prof. Manlio Rossi-Doria, in seguito divenuto Ordinario di Sociologia Rurale presso la stessa facoltà d’Agraria dell’Università Federico II. (Gianni Lopez)
Dell’Opera Valorizzazione Sila
( Reminiscenze e considerazioni di un sociologo ricercatore )
( prima parte)
“Era il 1949, ancor prima di laurearmi in Scienze agrarie, quando fui invitato dal prof. Manlio Rossi-Doria (relatore alla mia laurea) a partecipare agli studi preliminari che avrebbero dovuto consentire al Parlamento di approvare la ben nota Legge 12 maggio 1950 n° 230 (Interventi di riforma fondiaria nell’Altopiano Silano e territori jonici contermini – più nota come “Legge Sila”). Dopo gli incidenti di Melissa e di Cutro, tra gli occupanti delle terre incolte e le forze di polizia, ed ancor più in seguito, in occasione delle assegnazioni delle terre espropriate, mi resi conto di una sostanziale differenza tra il mondo delle nostre campagne e quello, invece, delle città nelle quali ero cresciuto. In quell’occasione, mi furono di validissimo aiuto soprattutto due libri – Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro (1930) e, ancor più, il Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi (1947) – che mi fecero scoprire la civiltà contadina della quale mi sarei occupato in seguito, sia pure in ruoli diversi e con riferimento anche a realtà molto diverse da quelle nostre. Soprattutto, dovetti rendermi conto che gli strumenti proprî dell’analisi economica e, ancor più, quelli della tecnica potevano essere utili per tentare di trovare risposte plausibili ed esaurienti solo ad alcuni problemi che interessavano la nostra realtà rurale che, allora, caratterizzava sostanzialmente il nostro Paese e, in particolare, il suo Mezzogiorno. Occorreva, però, far ricorso ad altri strumenti che, purtroppo, la nostra cultura accademica rifiutava anche, e non senza gravi conseguenze, per effetto dell’influenza esercitata dal crocianesimo, particolarmente presente proprio a Napoli. L’occasione mi fu offerta dall’arrivo, a Portici, di studiosi – americani ed inglesi, soprattutto – interessati a studiare, appunto, la nostra società meridionale e che, prima di compiere le loro ricerche di campo, ritennero opportuno documentarsi, contattando direttamente il meridionalista Rossi-Doria ed il gruppo di suoi collaboratori, diversamente impegnati in varie ricerche nel Mezzogiorno. Da queste fortuite circostanze, maturò il mio progressivo avvicinamento alla Sociologia ed all’Antropologia culturale con la mia partecipazione, tra l’altro, a quattro ricerche che, per la loro natura e per i risultati ottenuti, finirono per caratterizzare quel periodo, riscuotendo riconoscimenti anche a livello internazionale. La prima di queste ricerche – coordinata da Frederick G. Friedman e che aveva per obiettivo il risanamento dei famosi Sassi di Matera, con la creazione del nuovo insediamento de La Martella, da tutti considerato come un importante esempio urbanistico-architettonico ma anche sociologico – portò ad evidenziare meglio quale fosse l’atteggiamento, storicamente assunto ed elaborato dai contadini meridionali, nei confronti della ‘miseria’. A sua volta, Donald Pitkin, studiando la comunità di Sermoneta (Latina), evidenziò cosa aveva significato, durante il fascismo, il trasferimento, nell’agro pontino ancora da bonificare, di molte famiglie contadine del Delta del Po che, nelle zone d’origine, rappresentavano – per le misere loro condizioni di vita e per una loro tradizionale appartenenza al socialismo turatiano – una consistente minaccia per il regime fascista. Molti di questi contadini, non sopportando le condizioni di vita loro offerte da questo forzato spostamento, ben presto decisero di emigrare negli Stati Uniti, ove continuarono a restare uniti in una solida comunità. La terza, di George Peck, volle invece studiare quale fosse il livello di partecipazione dei contadini meridionali alla vita ed alle sorti delle istituzioni: in breve, il loro livello di partecipazione alla vita sociale e politica dei loro paesi. L’ultima, fu quella di Edward G. Banfield, americano di religione mormone, che, esattamente cinquanta anni fa (1958), voleva, con il mio aiuto, trovare una spiegazione delle condizioni di sottosviluppo rilevabili nel bacino del Mediterraneo. Nel caso italiano, ritenne che la causa andasse ricercata nella persistenza di un diffuso atteggiamento egoistico da lui definito come ‘familismo amorale’. Da ognuna di queste ricerche mi fu possibile trarre spunti interessanti che, rapportandoli alle due opere già ricordate di Alvaro e di Levi, avrei continuato a coltivare, arrivando ad individuare i caratteri maggiormente differenziali tra una società contadina ed il suo opposto urbano, tali da autorizzarci a costruirvi, poi, dei modelli interpretativi più generali. Il primo di questi modelli è facilmente riconducibile alla comunità elementare (la Gemeinschaft di Tőnnies), fatta di rapporti diretti od indiretti tra individui e, come tali, prettamente personali. Ciò implica l’esistenza di legami assai più consistenti e non solo di natura positiva ma, spesso, anche assai conflittuali, che trovano la loro stessa ragione di essere nelle opportunità offerte ad ognuno di poter comunicare. In tal modo, e per effetto della coesistenza di più comunità, si perviene a quella che preferisco chiamare la società dei cittadini piuttosto che, come troppo spesso ed impropriamente viene detta, la società civile. Se non altro perché, a volte, essa sa essere anche profondamente incivile !
Nei contesti urbani, invece, si è affermato il modello societario (la Gesellschaft), basato piuttosto sul privilegiato rapporto tra le istituzioni, che dovrebbero sempre presiedere e provvedere a tutte quelle azioni necessarie perché le comunità possano interagire tra loro e, quindi, mettere in condizione la società di essere veramente tale e nel più assoluto rispetto degli interessi collettivi anziché di quelli singoli. Da ciò, preferisco individuarla come la società delle istituzioni invece di accettarne la più corrente denominazione di società politica. Purtroppo, le modalità secondo le quali si è realizzato – particolarmente nella nostra realtà – l’ineludibile processo di modernizzazione, reso tale dai tempi, hanno provocato effetti deleteri e irreparabili. Quelli stessi che purtroppo noi, come moderne Cassandre, avevamo preventivamente paventato quando esortavamo a non consentire il totale dissolvimento della società contadina in uno con la sua civiltà. Invece, l’aver voluto accelerare detto processo – nel senso di un’industrializzazione in grado di bruciare le tappe – fece adottare acriticamente modelli del tutto estranei alla nostra cultura. Infatti, fu privilegiata piuttosto la via dell’imitazione tout-court a quella – sicuramente più lenta, ma, proprio per questo, portatrice di maggiori certezze per il conseguimento di un più graduale adattamento della nostra realtà ai nuovi ricercati modelli – di una continua e costante adozione di nuove modalità secondo le quali vivere l’inevitabile industrializzazione del nostro Paese. Ed era fin troppo prevedibile che gli effetti negativi sarebbero stati più dirompenti proprio nel Mezzogiorno sia per i suoi complessi ed articolati ritardi e sia, non meno, per la sua più che accentuata caratterizzazione come società contadina, a volte ancora in chiave latifondistica. Non sarà male ricordare, al riguardo, una felice espressione usata da Carlo Cattaneo – nel suo saggio su “La città considerata come principio ideale delle istorie italiane” (del 1858) – secondo cui, mentre nell’Italia settentrionale le campagne venivano valorizzate e modernizzate con i capitali guadagnati nelle aree urbane, nel Mezzogiorno accadeva esattamente l’opposto: le città venivano costruite con i capitali sottratti dalle campagne”.
Dell’Opera Valorizzazione Sila
( Reminiscenze e considerazioni di un sociologo ricercatore )
(Seconda parte)
Nonostante le speranze alimentate dai pur coraggiosi interventi di riforma fondiaria che, particolarmente nelle regioni meridionali, avevano sostanzialmente avviata l’estinzione di quel regime fondiario anacronistico e, ancor più, dall’innovazione rappresentata dalla politica straordinaria gestita attraverso la Cassa per il Mezzogiorno, nel ventennio 1951-71 circa il 14% della popolazione meridionale (circa 4 milioni e mezzo di persone) emigrò all’estero o verso il nostro Nord. In un Convegno presso la Fondazione Einaudi, a Torino, i meridionalisti Rossi-Doria e Graziani preavvertirono sui guai che sarebbero stati provocati dall’attrazione al Nord di mano d’opera meridionale invece che procedere ad una più sollecita ed incisiva industrializzazione delle regioni meridionali. A loro fu risposto che i tempi erano stretti e non si poteva perdere l’aggancio all’allora molto favorevole congiuntura. Noi fummo accusati d’essere nostalgici ed anacronistici difensori di una presunta civiltà contadina e come tali, in sostanza, ciechi oppositori dell’industrializzazione che, sola, avrebbe potuto assicurare maggiore occupazione, redditi più alti e diffusi e, soprattutto, miglioramento del livello dei consumi. Invano, rispondemmo che eravamo ben consapevoli dei difetti e dei mali di quella società, ma, ugualmente, temevamo che, con le scelte di moda, si sarebbe corso sicuramente il rischio di provocare, nel nostro Paese, guai anche peggiori di quelli che già si potevano rilevare altrove. Se non altro, avremmo accelerata la scomparsa dei valori positivi che pur esistevano, nonostante la miseria, nella società contadina. A cinquanta anni di distanza, si può tentare un primo bilancio dei danni provocati. Il senso della comunità non lo si è preservato nel Mezzogiorno dove, faticosamente, lo si stava facendo attecchire dopo il riscatto storico avvenuto e, quel che è peggio, lo si è minato anche nelle regioni settentrionali che pur, in passato, avevano vissuta la proficua esperienza del Comune medioevale. Questa perdita, man mano nel tempo, ha fatto deteriorare anche gli indispensabili rapporti tra le due società: quella dei cittadini e quella delle istituzioni, con danni incalcolabili soprattutto nei rapporti tra eletti ed elettori, tra cittadini ed istituzioni e tra le stesse istituzioni. A loro volta, anche all’interno di ciascuna di queste società la comunicazione è diventata sempre più difficile: in alcuni casi, è cresciuta quantitativamente, ma è terribilmente peggiorata dal punto di vista qualitativo. Forzatamente, ci si è dovuti rassegnare ad abbandonare sempre più la comunicazione diretta – quella che gli americani, efficacemente, definiscono come “face to face”(“faccia a faccia”) – per ricorrere sempre più ad un mezzo qualsiasi, offertoci dalle innovazioni tecnologiche che, giorno per giorno, si perfezionano (non a caso si parla di “mass media”, ossia di mezzi adottati da una massa di persone [1]), dimenticando che la vera comunicazione non è fatta solo di parole, ma anche di gesti, di sguardi, di sospiri: si comunica non solo attraverso i corpi, ma anche mobilitando tutti i nostri cinque sensi. Ciò diventa sempre più impossibile quando, anche gli umani, si adeguano al modello di monade ipotizzato da Leibniz
Per assurdo, allora, più si ampliano – in presenza di una sempre crescente globalizzazione – i confini dei territori da noi percorribili – in un modo o nell’altro, realmente o virtualmente, con questo o quell’altro medium - e minore è la qualità della nostra comunicazione: inutile, poi, lamentarsi se aumenta l’incomprensione tra diverse culture e religioni, tra gli Stati, tra gruppi, nell’ambito di un gruppo o, perfino, di una stessa famiglia. Si proliferano gli strumenti e questi si collegano sempre più velocemente ed efficientemente tra loro in reti (le famigerate network) per offrire tutta una varietà di opportunità: i blog, le chat, le e-mail. E, nel caso dei messaggini via telefonino, si adotta ormai un linguaggio tutto esclusivo, che diventa ben presto un gergo vero e proprio. Come non considerare con un certo allarme che l’Italia è tra i Paesi a più alta diffusione e densità dei telefoni cellulari; che non sono rari i casi di persone che ne posseggano più di uno perché destinati ad assolvere diverse funzioni nella loro vita; che, con l’alibi di poterli meglio controllare, gli stessi genitori ne forniscano anche i figli minori? E che, se abilitati alla funzione fotografica, possono consentire la riproduzione di scene, di visi o, perfino, di situazioni anche alquanto delicate e, poi, magari diffondendole anche in rete ? Questa radicale mutazione nel nostro sistema di comunicazione – ove non si fosse capaci di correre ben presto ai dovuti rimedi che non possono consistere solo nei compiti istituzionali affidati all’Authority specifica o, per altri casi, alla stessa Magistratura – potrebbe minare le stesse radici e motivazioni della nostra convivenza civile e democratica, fino ad aggravare quella pericolosa tendenza già, purtroppo, presente tra noi del comportarsi secondo l’irrazionale logica dell’ “homo homini lupus”. E come non ricordare l’ormai famoso 1984 di Orwell e, ancor più, l’impietosa analisi del gruppo guidato da Riesman a Yale, che, l’anno successivo, denunziò per primo i pericoli verso cui, almeno il mondo occidentale e sviluppato, si stava incamminando velocemente ed incoscientemente, trasformandosi in una terrificante “folla solitaria”? L’unica salvezza risiede solo in una seria e tenace opera di recupero di certi valori di base; ma essendo ben consci che non è impresa da poco e che non può essere intrapresa solo da pochi, sia pure da un’élite culturale e responsabile. E’ in gioco la nostra permanenza nel mondo del ragionamento, del confronto, dell’interazione reciproca senza pregiudizi in luogo dell’imposizione, della discriminazione, dell’integrazione autoritaria governata dalla determinazione di voler sempre prevalere sull’altro.
Gilberto-Antonio Marselli
Ordinario di Sociologia Università Federico II