MONTENERO, UNA MONTAGNA D’AMARE

di Saverio Basile

Sulle alture di Montenero, a quota 1.881 metri, c’è una postazione da dove si può osservare nitida e chiara la sagoma dello Stromboli, sempreché sulla Stretto la foschia non ne avesse resa opaca la visione. Il periodo migliore per questo spettacolo della natura è primavera, ma meglio ancora l’autunno, specie se una leggera brezza di tramontana ne avesse prima spazzato via le nuvole. Il cono sommitale del vulcano è visibile ad occhio nudo, figurarsi che spettacolo quando dal ventre di quella montagna l’eruzione espella lingue di fuoco che sembrano volessero raggiungere il cielo. Ma Montenero è una montagna, che i sangiovannesi, purtroppo, conoscono poco, anche se si eleva nel proprio territorio. Quei pochi che sono riusciti a scalarne le alture, sanno che dal punto trigonometrico posto dall’Istituto geografico militare, si domina l’intero Altopiano Silano con la vetta di Botte Donato a nord e quella di Zigghimarru a sud, che sembra possibile afferrare con mano, mentre i laghi Arvo, Ampollino, Cecita e Ariamacina sono diamanti azzurri incastonati nel verde dell’acrocoro e quando questo è coperto di neve l’azzurro dell’acqua n’esalta ancora di più la bellezza. Un tempo questa montagna era poco accessibile. I briganti ne conoscevano ogni piccolo anfratto per cui avevano vita facile di continuare a vivere liberi e all’aria aperta; mentre il nivaru Giovanni Laratta ne conosceva ogni palmo e cambiava ogni anno i posti dove sàliare la neve che d’estate avrebbe poi trasportato a dorso di mulo in paese, per essere venduta e usata come refrigerio nelle giornate calde di luglio e agosto. Il nivaru vendeva le “pietre di neve” nel suo Catuoju di via Pilla. A seconda della quantità richiesta dai clienti, il nivaru (o sua moglie Maria Belcastro) spezzettava le pietre di neve usando uno scalpello e la mazzetta. Poi quando veniva portata a casa le massaie avvolgendola in una pezza di lino riducevano la pietra a grani con cui preparare rinfrescanti granite al limone o al caffè. Ma Montenero è una montagna dalle diverse stagioni: in autunno è una tavolozza di colori che avrebbe fatto gola a Goghen, se solo ne avesse conosciuto la bellezza. La vegetazione ha colori violenti dai contorni decisi: il verde scuro del pinus laricio, il rosso cupo degli ontani, il giallo oro dei pioppi, mentre immense distese di felci ne esaltano il tutto. “Poter soggiornare lassù su quella cima – era solito dire il primo sindaco del dopoguerra, Tommaso Basile – è come vivere eternamente in cielo perché l’aria rarefatta rende visibile ogni piccola stella” e così sul finire degli anni ‘50 spinti da quella considerazione, un gruppo di ragazzi, tra cui suo figlio Giuseppe, partirono a notte fonda per raggiungere la vetta e gustare il chiarore dell’aurora che precedeva di poco lo spuntare del sole. A sera, al ritorno in paese, la prima domanda di D. Tommaso premuroso era: “Avete visto la Sicilia?” e tutti in coro, stanchi ma felici, rispondeva “Siii!”. Ed egli forse ricordava un’identica escursione di cui fu protagonista da ragazzo, giacché sulle labbra gli affiorava un sorriso nostalgico. Montenero, dunque, è una montagna da conoscere, non fosse altro per guardare d’inverno la vetta innevata, e poter dire a se stesso, lassù ci sono stato, come capita a me, da quel giorno, quando la montagna mi si para davanti in piena curva sotto casa mia, imbiancata dalla prima neve di stagione che vi rimane poi fino a tutto Giugno.

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