di Saverio Basile
Gli anni ’60 del secolo scorso segnarono indubbiamente l’inizio del boom edilizio a San Giovanni in Fiore, alimentato dalle copiose rimesse che gli emigrati in Svizzera, Germania e Francia, riuscivano a mandare a fine mese attraverso l’Ufficio postale. Il sogno di ogni sangiovannese, indipendentemente dal ceto di appartenenza, era quello di possedere, quindi, una casa decorosa nella quale abitare con la propria famiglia fino allora fatta crescere in locali fatiscenti o, comunque, non comodi ad ospitare più persone. Fatta eccezione per i fortunati assegnatari di una casa popolare che il “problema alloggio” lo avevano risolto grazie allo Stato. Il fabbisogno di case, dunque, fu percepito in quegli anni da alcune imprese venute da fuori, che intravvidero l’affare. Il primo palazzo a gestione condominiale, munito di ascensore e box, allora elementi inimmaginabili nella fantasia dei sangiovannesi, fu costruito dall’impresa Salcesi, la stessa che venne da Foggia nella primavera del 1961, per realizzare l’ospedale. Gli appartamenti di tipo “signorile”, composti minimo da cinque vani con bagno “maiolicato” furono 16, che vennero venduti “sulla carta” a professionisti ed impiegati con stipendio fisso, in grado di far fronte ad un mutuo ipotecario. Seguì palazzo Muscò, costruito da Michele Muscò, un giovane costruttore crotonese il quale puntava a realizzare una piccola città fatta di palazzi condominiali, come stavano sorgendo un po’ ovunque in Calabria. Muscò però non ebbe vita facile, perché gli appartamenti furono una quarantina (tanti per quel tempo!), ma molti rimasero invenduti o, svenduti più volte, a causa anche della mentalità di quel ceto emergente, che nutriva un grande senso individualistico ed aspirava ad una casa con ingresso “indipendente”, rifiutando ogni tipo di condominio, dove “ognuno controlla l’altro quando entra ed esce”. Terzo palazzo “per signori”, come ebbe a definirlo all’epoca un assessore in carica, che voleva espropriare il parcheggio privato antistante allo stabile, per renderlo pubblico, sorse per iniziativa degli ingegneri Francesco Spadafora e Pasquale Landriscina (quest’ultimo venuto anch’egli a seguire i lavori dell’ospedale). L’immobile, meglio conosciuto come “Palazzo Spadafora” è un “monoblocco” alto sei piani con ventidue appartamenti e due ingressi separati, la scala A e la scala B, munito di appartamento per il portiere (mai assunto!) e di un piccolo parcheggio. Ultimo “palazzo” costruito a ridosso del Municipio e davanti a palazzo Salcesi, è “Palazzo Landriscina”, costituito da 12 appartamenti. Pensato e voluto dall’ingegnere foggiano, lo stesso che progettò tre dei quattro grossi palazzi sangiovannesi, con la speranza di avviare un discorso nuovo sull’espansione urbanistica del nostro paese. Proposito che non andò in porto, per quella voglia di “casa indipendente” che ogni sangiovannese tuttora punta a realizzare. Per il resto una colata di cemento che scende dal Bacile fino a Cozzo Geppetto, da Manco Piano fino al Vaccarizziello e da Ferrandiello fino al Petraro. Per non parlare di altri quartieri, in parte coinvolti nell’opera di cementificazione “selvaggia”, che ha fatto di San Giovanni uno dei paesi più discutibili dal punto di vista urbanistico.