di Saverio Basile
Se c’è ancora una cosa che puoi portare agli amici che non abitano più nel nostro paese, certo di fare loro cosa gradita, è il pane casarulo, quello per intenderci cotto a legna. E se ci scappa un pezzetto di carbone nella corteccia meglio ancora, perché n’autentica l’originalità. Il nostro paese, ancora oggi, è conosciuto fuori per la bontà del suo pane. Meriterebbe un Dop, sostiene un mio amico di Verona al quale glielo faccio avere di tanto in tanto e lui mi ripaga confermandomi che quel giorno a tavola, finalmente, ha mangiato rurulu e mollica insieme, cosa che non gli capita di fare gli altri giorni. Ma il Dop non è cosa facile da ottenere, ci vuole l’avviamento di una pratica che costa un “capitale” e non sempre arriva a buon fine. Il pane è, comunque, specialità regionale (Basta pensare alla Sicilia dove è solito mettere semi di sesamo sulla crosta, mentre nella Valle Padana, che si estende intorno a Ravenna, alla farina, specie se scarseggia, i contadini ancora oggi uniscono fecola di patata). Ma addirittura il pane è diverso fra paesi limitrofi. Sarà il modo di impastare la farina con ‘u crescente, sarà la qualità d’acqua adoperata o i tempi di lievitazione, per ottenere un prodotto diverso. Nel nostro paese fare ‘u pane era un rito che impegnava le donne di casa per un giorno e mezzo. Si andava al forno per mettersi d’accordo con la furnara che regolava il turno in base alle partite; poi il pomeriggio stabilito si andava a ritirare ‘u criscente, estrapolandolo dalla pastata precedente; quindi ci si procurava le frasche e all’indomani si tornava per ammassare la farina nella grande majlla, dove l’impasto poi veniva ammantato con coperte di lana grezza perché si tenesse caldo e lievitasse serenamente, non prima di aver fatto tre volte il segno della croce e ripetuto: “Crisci beneritto! Crisci beneritto!, Crisci beneritto!”. Ad una certa ora quando ci si accorgeva dell’avvenuta lievitazione, si dava inizio alla forma dei pani, mettendo parte della pastata su un tavolo quadrato, dove più di una donna aiutava. I pani, ormai belli e fatti, venivano messi a riposare “sotto coperta” sulle tavole poste a gradinata sulla parete interna del forno-laboratorio. All’ora del Vespro ‘a furnara attizzava il fuoco, rimovendo la botola della finestrella laterale, stendeva una mano nel forno e se si accorgeva che la temperatura era “salita” cominciava ad infornare i pani nel ventre del forno che aveva una capienza di 40-50 pezzi, passando per la porta centrale del forno. Poi regolava il calore attizzando o spegnendo il fuoco di riverbero, usando uno scopone bagnato e andava avanti così fino alla cottura. Sfornare il pane cotto con la lunga pala di legno, sentirne la fragranza e mettere quel ben di Dio nella sporta era il momento più eccelso della giornata. Perché il pane è grazia di Dio! A casa la cannizzara aspettava di essere riempita e per un mese si aveva il pane garantito per tutti i componenti la famiglia.