TUTTE LE VIE PORTANO A ROMA

UNA RECENTE SCOPORTA NELLA SIBARITIDE

di Alessia Lopez

Ci sono strade che sono esse stesse “meta”, dalle quali inizia un viaggio a ritroso nella storia sino a giungere alle origini. Nella Sibaritide, le scoperte non finiscono di stupire e, soprattutto, conducono all’illustre vitalità economica romana in loco, una testimonianza che l’incuria e l’ignoranza dei posteri non ha cancellato. Pian pianino, emergono resti archeologici che ridisegnano i contorni del ruolo e del valore dei luoghi. Di recente, a Trebisacce, in Contrada Chiusa, durante lo svolgimento di lavori condotti dall’Enel, sono venuti alla luce cinque metri di strada, forse, di epoca Traianea, secondo la ricostruzione formulata dal Prof. Masneri, celebre storico e direttore del Parco archeologico di Brogno. Sono in corso i saggi della Soprintendenza atti a confermare e a smentire la tesi che possa trattarsi della vecchia statale 106 a sostegno dell’arteria romana che, dalla mera visione, è costituita da grossi ciottoli fluviali adagiati a pavimentazione, chiusi sui lati da blocchi enormi, che fanno supporre a manodopera schiavile. L’idea, però, che possa essere un tracciato romano, è suffragata da un altro casuale rinvenimento avvenuto nel 1986, sempre nella stessa zona, di anfore e di un recipiente per la pece, l’oro della Sila. La certezza della provenienza è data un bollo figulino, Pix Brutia, impresso su uno dei frammenti dei contenitori e menzionato nelle fonti letterarie. Il mare nostrum fu luogo di incontro e di scambi commerciali, attraversato e sfidato grazie alle impareggiabili materie prime fornite dal sistema orografico silano, copioso manto di abeti, ontani, pini, faggi e frassini, boschi variegati descritti dal greco Strabone e documentati nel suo sfruttamento nel periodo romano da Dionigi di Alicarnasso. La Sila era ager publicus, produttrice di legname e di un’indiscussa pece per qualità, estratta per mezzo di incisioni a lisca di pesce, non invasive, di cui ancor oggi si possono ammirare i pregevoli tagli ricamati lungo i tronchi. Essa fu oggetto di studio da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia. La sua peculiarità era nella densità del prodotto, adatta, a differenza delle altre, per impermeabilizzare le navigazioni e per sigillare botti e recipienti di altro genere, come le anfore. Sul ritrovamento delle anfore nella località Chiusa di Trebisacce, l’architetto Maurizio Silenzi Viselli ha sostenuto, nel corso di una conferenza, che non si trattasse di un magazzino portuale, come supposto dall’inizio, ma che la loro disposizione, allineate e coricate, nonché la collocazione geografica sulla battigia, possa far pensare a qualcosa di più significativo, ossia di una chiusa idraulica per l’intercettazione dell’acqua per l’alimentazione della salina. Le anfore servivano a chiudere e ad aprire i canali e a creare dighe rettilinee. Analoga funzione avevano le anfore ritrovate a Roma, durante i lavori della stazione della Metro C a San Giovanni, ove è stato trovato il più grande bacino della città che movimentava l’acqua di un canale per riempire una grossa vasca utilizzata per l’irrigazione di un frutteto. Nello scavo sono emerse alcune anfore disposte come quelle di Trebisacce. Non resta che constatare che questi suggestivi risvolti storici, avvalorati dalle comparazioni di tecniche egualmente diffuse sul territorio italiano attraverso una comunicazione capillarmente attuata, ci confermano come tutte le vie portano a Roma!

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