PER RICORDARE SUOR ELEONORA FANIZZI

DEFINITA LA “NOSTRA  MADRE TERESA DI CALCUTTA” – E’ STATA RICORDATA NELLA CHIESA MADRE DI SAN GIOVANNI IN FIORE DA SAVERIO BASILE  E DAL VESCOVO DI SAN MARCO ARGENTANO-SCALEA, MONS. LEONARDO BONANNO, PER INIZIATIVA DELL’ASSESSORE ALLA CULTURA DEL GROSSO CENTRO SILANO

Di segutio l’intervento del giornalista Saverio Basile:

“Appena raggiunta la maggiore età (all’epoca era di 21 anni) la giovane Maria Luisa Fanizzi (per noi tutti suor Eleonora), prese coraggio e informò Papà Vito e mamma Anna Rosa Mancini che lei voleva entrare in convento per farsi suora. Ultima di una famiglia pugliese di Polignano a Mare (provincia di Bari) (11 figli, tutti dediti all’agricoltura) la reazione del padre fu quella di mettersi le mani nei capelli e amareggiato dire in presenza di tutti “Sono braccia rubate alla terra!” Poi con il passare dei giorni i genitori finirono con l’accettare quella scelta coraggiosa che avrebbe portato la loro figlia a donarsi al Signore e così iniziarono anche loro a mandare qualche primizia (come le ciliegie e i carciofi del loro orto) al convento delle suore che ospitava quella figlia che si apprestava a prendere i voti.  Suor Eleonora Fanizzi era giunta a San Giovanni in Fiore nell’immediato dopoguerra, nel 1944, assegnata al convento delle suore di Carità dell’Immacolata Concezione d’Ivrea, che aveva sede nell’antico palazzo De Marco (attuale Biblioteca comunale), per occuparsi dei bambini dell’asilo e delle ragazze che si accingevano ad apprendere un mestiere di sarta o di ricamatrice. Ma ben presto suor Eleonora si occupò anche di catechesi, educando tanti ragazzi di strada all’amore verso Dio e verso il prossimo, anche se la sua vocazione “intima” era quella di occuparsi dei più poveri del paese, quei tanti vecchietti soli ed abbandonati, che cessavano di vivere durante i rigidi inverni silani, come andremo a vedere, più avanti. E l’occasione non tardò a venire, infatti. Una sera di inverno del 1946 un mendicante originario di Castelsilano venne rinvenuto semi-assiderato dal freddo nei pressi della Fontanella. L’uomo al momento non ricordava più nulla, neanche il suo nome di battesimo. All’epoca la Parrocchia di Santa Maria delle Grazie, la più importante parrocchia del paese era affidata a D. Umberto Altomare, un prete dinamico (nel 1960 divenne vescovo ausiliario di Mazzara del Vallo), capace di risolvere tutti i problemi che gli si presentavano davanti al suo cammino. Quel “trovatello”, nel frattempo affidato alle cure di una parrocchiana caritatevole, fece scattare la molla dell’accoglienza nella testa di D. Umberto, che ne parlò con il vescovo mons. Aniello Calcara e così dopo qualche giorno radunò le donne più in vista del paese per la creazione di una Casa di riposo (allora chiamata Ospizio) e formò così un comitato delle Dame di carità composto da D. Serafina Foglia, D. Carla Fornasari-Marini, D. Angela Benincasa-Oliverio, D. Ermanna Cribari, D. Isabella Rocco-Biafora, D. Teresa Nicoletti (le ho volute elencare una per una anche per un senso di gratitudine) e man mano altre persone disposte ad andare a chiedere la carità per vestire e dare da mangiare ai primi vecchietti che già avevano trovato ospitalità in una ala abbandonata dell’Abbazia Florense. Ma il numero degli ospiti aumentava ogni giorno di più e così il “grande” D. Umberto chiese aiuto alla Madre Provinciale delle Suore di Carità dell’Immacolata Concezione che gli assegnò due religiose: suor Colombina Meroni e suor Eleonora Fanizzi, che andarono ad insediarsi nell’Ospizio, staccandosi dal Convento di palazzo De Marco. Suor Colombina in veste di superiore e suor Eleonora operaia tutto-fare, mentre le Dame di carità portavano viveri di ogni genere. L’Ospizio venne intitolato a “San Vincenzo de’ Paoli”, fondatore della Congregazione delle Dame di carità ed era un ente morale sotto il controllo diretto del pretore pro-tempre che ne era il presidente. A suor Eleonora ho vista fare le cose più impensabili per una donna: zappare l’orto dove coltivare gli ortaggi (lattughe, cavoli, spighe di granturco); spaccare la legna per alimentare il fuoco e la cucina; mungere la mucca che le aveva regalato l’Opera Sila per il latte con cui fare le zuppe la mattina; lavare a mano gli indumenti degli ospiti che poi andava a stendere per asciugare nell’Abbazia Florense, chiusa al culto perché aveva il tetto pericolante a causa di una alluvione che ne 1951 si abbatté sulla Calabria. Suor Eleonora aveva steso una grande corda all’interno della Chiesa che andava da una parte all’altra della navata centrale, mentre le statue di San Giuseppe e quella della Madonna Addolorata erano state adagiate per terra, in attesa di mettere mano a tutta la struttura. Al centro del refettorio, una grande stufa riscaldava il locale, mentre quando i vecchietti andavano a letto borse calde per tutti. Tra gli ospiti che ricordo con particolare attenzione Vincenzo Le Pera, cieco dalla nascita, originario di Petilia Policastro, persona dotata da una sensibilità non comune che suonava l’argano e cantava la messa la domenica, il quale la precedeva quando uscivano insieme a chiedere “l’elemosina”, chiamando uno per uno  i commercianti, quando si accorgeva di essere giunto davanti ai loro negozi, oppure quando ne sentiva la voce, mentre un altro cieco di nome Ciccio le stava attaccato al braccio pronto a farsi carico della pesante borsa di cuoio dove suor Eleonora metteva le cose che le regalavano i commercianti. Santo, invece, era addetto all’orto e alla stalla, e non faceva nulla se non gliela diceva suor Eleonora, perché temeva di farla arrabbiare. Ogni mattina questo insolito equipaggio partiva dall’Ospizio e saliva fino al Mulino di Belsito o verso lo Sventramento. Dal padrone del Mulino (Gigino Belsito) si faceva dare la farina per fare gli gnocchi o le tagliatelle per la domenica e i giorni di festa; dai macellai (Meluso, Gallo, Silletta, Bitonti e Marcello Greco), invece, si faceva dare le ossa dei bovini per fare il brodo. Ma quelle brave persone non si limitavano a darle le ossa, perché in quella borsa infilavano un pezzo di carne e qualche altra cosa. “La provvidenza è grande e così anche per oggi i vecchietti mangeranno come Dio vuole”, diceva nel prendere commiato dai quei commercianti. Quando, invece, le serviva qualcosa di più consistente: la legna da ardere, il foraggio per la mucca, qualche operaio per eseguire qualche lavoro nella casa, si presentava di buon mattino in Municipio e il sindaco comunista Giuseppe Oliverio insieme all’assessore Pulice la prima persona ad ascoltare era suor Eleonora “Se ne deve andare – si scusavano gli amministratori con i cittadini che erano andati a conferire con il sindaco – diversamente quei vecchietti le fau ancunu rifriscu”. Aveva un filo diretto con gli amministratori e con il presidente dell’ECA, che non mancava di farle avere qualche buono per l’acquisto di generi alimentari. Ma tanti altri benefattori hanno aiutato economicamente l’Ospizio, come D. Luigi Nicoletti che gli passava interamente il suo compenso di consigliere provinciale e sul Bollettino Parrocchia che pubblicava mensilmente D. Umberto, questa donazione appariva come benefattore N.N., salvo poi renderlo noto al momento della morte del sacerdote, quando D. Umberto dall’altare rivelò il nome di quel generoso benefattore. E così Saverio Merandi, un emigrato in America che puntualmente promuoveva raccolte di denaro tra gli emigrati e faceva avere le “ceche” al parroco di questa parrocchia. Tutto alla luce del sole, perché il Bollettino Parrocchiale “Il Buon Pastore” era lo specchio di tutto quello che si verificava all’Ospizio e in Chiesa. Personalmente ho avuto con Lei un rapporto di odio e di grande amore. Quando ero ragazzo insieme a Giannetto De Vuono, Tonino Iaquinta, Antonio Cocchiero, Mario Pignanelli, Benedetto Lopez e tanti altri della piazza la odiavamo e pregavamo il Signore perché la facesse morire. “Ma Gesù che è grande” come diceva sempre suor Eleonora, non ascoltava le nostre assurde richieste. Perché questo nostro odio? Nel chiostro dell’Abbazia (la cosiddetta Villa Comunale) noi giocavamo a palla (non a pallone perché non era nelle nostre possidenze averne uno) e spesso colpivamo in testa quei poveri vecchietti che prendevano il sole, senza dare fastidio a nessuno.  Quando suor Eleonora se ne accorgeva ci toglieva fuori dal recinto, e quando non ci riusciva aveva messo in atto un cane da guardia che legato scorreva lungo una catena d’acciaio. Se il cane riusciva a prendere la palla (come capitava quasi sempre) ne faceva quattro pezzi nel giro di qualche istante. E noi puntualmente “Disgraziata!” gridavamo e scappavamo via. Il grande amore, venne – invece – quando ormai grandicello sono riuscito a capire (e così anche gli altri miei amici) il lavoro che questa suora andava svolgendo. Mi sono trovato un giorno ad assistere all’agonia di zù Giuseppe, un vecchietto che era finito all’ospizio dopo la morte della moglie. Suor Eleonora ne accarezzava le mani, poi il viso, infine, premeva sulla fronte per sentire se la febbre era ancora galoppante e gli metteva una pezza bagnata in testa e piano piano gli sussurrava “Peppì…, chiudi gli occhi e dormi; domani ti svegli davanti a Gesù che ti sta aspettando. C’è anche Rosina tua, vicino a Gesù che sta pregando per te”. La morte di ognuno di quei vecchietti ospiti dell’Ospizio era per suor Eleonora un evento triste. Ne piangeva la morte come se fosse la morte di un figlio o di un fratello e le altre suore dovevano andare a consolarla e farla scendere giù dal dormitorio. Consentitemi di riportavi due testimonianze che sono state pubblicate su Il nuovo Corriere della Sila, la prima è del dott. Biagio Guzzo, per capire di che pasta era fatta suor Eleonora: “All’inizio della mia carriera di medico, – scriveva il dott. Guzzo – ho avuto come pazienti la quasi totalità dei vecchietti dell’ospizio. Di conseguenza andavo ogni giorno alla casa di riposo.  Una mattina si presentò allarmata nel mio studio una signora che mi chiedeva di andare urgentemente con lei, perché un vecchietto aveva lanciato un pezzo di legno alla testa di suor Eleonora, ferendola gravemente. La trovai, infatti, tutta sanguinante e cominciai così a pulirla dai capelli, perché la potessi medicare, effettuando una sutura con 6-7 punti. Nel frattempo ricordo che la superiore suor Diega, tra le lacrime cercava di consolare suor Eleonora, rassicurandola che avrebbero mandato via il vecchietto che era troppo “manesco e violento”. Ma suor Eleonora anziché piangere per il dolore fisico che certamente le provocava il mio intervento, si preoccupava di tranquillizzare la consorella, dicendole che il vecchietto non era cattivo e che certamente quel pezzo di legno gli era scappato di mano. Poi nei giorni a seguire prego anche me – ricorda il dott. Guzzo – di mettere una buona parola, perché il vecchietto non venisse allontanato: “Non ha nessuno, la sua famiglia siamo noi”, diceva suor Eleonora…L’altra testimonianza viene dal Canada. È firmata da Caterina Marra: “Sogno spesso suor Eleonora – scrive – e la rivedo quasi sempre in un immenso giardino, indaffarata ad accudire i fiori, soprattutto rose e gigli, ai quali toglie di continuo i petali secchi. Quando nel nostro parlare (sempre in sogno) le domando notizie dei suoi vecchietti (e faccio anche dei nomi: Ciccio, Vincenzo, Santo, ma anche di donne che hanno collaborato con lei pur essendo ospiti della Casa), lei con un gesto spontaneo lascia capire che sono intorno a sé, ma io non vedo nessuno. Poi quando mi sveglio penso: ma se non sono in paradiso quei vecchietti che hanno tanto sofferto sulla terra, chi mai potrà abitare quel giardino sterminato, che suor Eleonora continua a coltivare lassù? E allora ritorno indietro nel tempo e mi rivedo alla macchina da cucire a rammendare mutandoni, pantaloni e camice, per darle una mano. Ero una delle più grandicelle, fra quelle che frequentavano il laboratorio delle suore a palazzo De Marco, quindi suor Eleonora si rivolgeva spesso a me per aiutarla, indaffarata com’era a fare mille altre cose. L’ultima volta che l’ho sognata le ho detto che le stavano facendo un monumento e lei preoccupata ha detto “No! No, perché se lo sanno alla Casa generalizia mi puniscono o mi trasferiscono altrove”. Questa donna coraggiosa è stata un raro esempio di carità e di altruismo nella nostra città, in quasi sessant’anni di attivo impegno, non si è risparmiata un solo istante, perché il lavoro era tanto e i problemi da risolvere innumerevoli, anche perché con l’andare del tempo gli ospiti della casa aumentavano sempre: non erano mai meno di venti tra uomini e donne. E poi non c’era solo il reperimento del cibo, ma c’era l’impegno di fare l’insulina al diabetico, dare le medicine ad orario a questo o a quell’ospite, e ancora accudire la mucca, allevare i maiali, ma c’era da fare anche barba e capelli agli ospiti della casa o rimboccare quei vecchietti che trovavano difficoltà a portare il cucchiaio alla bocca. E così quella suora, ormai anziana pure lei era diventata una esperta parrucchiera, pronta a fare “barba e capelli” ai suoi “ragazzi”, come li chiamava quando aveva voglia di scherzare. Insieme a suor Eleonora, la nostra piccola madre Teresa di Calcutta, si sono avvicendate altre suore della stessa famiglia monastica, per dare una mano o per essere da guida a quella suora-operaia, impegnata notte e giorno ad assistere gli ospiti dell’Ospizio o semplicemente a vegliardi, quando stavano poco bene. Quindi è doveroso ricordare suor Livia, suor Secondina, suor Diega e altre zelanti e virtuose monache. Il popolo di San Giovanni in Fiore non ha dimenticato quelle zelanti suore. E così quando il nostro giornale ha pensato di erigere un monumento a quel simbolo di suora che ha dato tutta sé stessa per portare avanti la casa non si è fatto indietro. Con generosità ha sottoscritto la cifra di oltre cinquemila euro per il costo della fusione in bronzo del calco. Il busto è stato realizzato interamente gratis dal bravo artista Franco Bitonti, un pittore scultore di origine sangiovannese che vie a Castrolibero ed è autore di diversi monumenti di carattere patriotico in provincia di Cosenza. Il piedistallo in granito è stato offerto dall’Amministrazione comunale dell’epoca, guidata da Pino Belcastro che insieme al governatore della Calabria, il sangiovannese Mario Oliverio, hanno voluto prendere parte alla cerimonia di scopertura, la vigilia di Natale del 2015, mentre mi è d’obbligo ringraziare anche D. Germano Anastasi, per aver permesso di posizionare la stele in quel piccolo spazio davanti alla porta di servizio di questa chiesa. Ora il mio appello è diretto a voi tutti amici di San Giovanni. Quando passate davanti a quel monumento alzate la mano in segno di saluto, ditele ciao, se non fate in tempo a farvi il segno della Croce o a dirle una preghiera. Suor Eleonora da quella parte di cielo dove ancora continua instancabilmente a lavorare vi vede e sorriderà contenta: “perché qui mi conoscono tutti!” disse a me e ad Emilio de Paola, quando siamo andati a trovarla per l’ultima volta prima di partire per Collepasso dove mori il 28 giugno 2004, raccomandandoci che voleva essere sepolta a San Giovanni in Fiore, il paese che l’ha accolta e le ha voluto bene come una mamma. E così poi in effetti è stato. Grazie eccellentissimo vescovo per avere voluto essere questa sera in questa chiesa che vi ha visto chierichetto, poi sacerdote e oggi vi accoglie come un figlio illustre della Chiesa calabrese a parlare di suor Eleonora. Grazie assessore Carbone che questa sera rappresenta il popolo tutto di San Giovanni in Fiore. E, infine, grazie al Parroco D. Batista Cimino che ha accolto l’invito dell’Amministrazione Comunale che ha preso al volo il suggerimento di Francesco Mazzei di dedicare una giornata al ricordo di suor Eleonora Fanizzi, la suora-operaia che tanto bene ha seminato in questa nostra cittadina. Ciao, suor Eleonora, stai tranquilla i tuoi vecchietti non li infastidirà più nessuno in Paradiso!”

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