Marcinelle (8 agosto 1956) – E’ Scoppiata la miniera!
Vi persero la vita 262 lavoratori tra cui 136 italiani
di Saverio Basile
Marcinelle (Belgio) 8 agosto 1956 – ore 8,10 del mattino. Le brutte notizie sono più veloci della luce. Così, in Calabria a migliaia di chilometri di distanza, tutti con le orecchie tese alla radio, per capire l’entità di una tragedia che man mano si delineava sempre più grave. Era successo che nelle viscere della miniera “Bois du Cazier” poco a sud di Charleroi, avvenne uno scontro di due carrelli metallici, per un mero errore umano, che finirono contro un fascio di fili elettrici posato ad una profondità di 965 metri, sprigionando un fuoco di scintille che accese una sacca di gas formatasi a quella profondità, in uno dei tre pozzi, esattamente il n° 1 denominato St. Charles (pozzo di entrata e di areazione) attivo sin dal 1830, determinando uno scoppio senza precedenti. Tra mille difficoltà si provano a contare le vittime: 262 i lavoratori scesi in quel maledetto pozzo per il primo turno di lavoro che non rispondono più all’appello. Tra i dispersi 136 erano italiani, 95 belgi e 31 europei di varia nazionalità. Le operazioni di salvataggio furono disperate e portate avanti fino al 28 agosto, quando uno dei soccorritori pronunciò in italiano “Tutti cadaveri!” E da quel momento ogni speranza cessò di albergare nella mente dei familiari e dei compagni di lavoro. La morte sopraggiunta per asfissia li aveva colti nel vigore degli anni. Fu subito nominata una commissione d’inchiesta composta in tutto da 27 membri, che si riunirono venti volte, approvando alla fine il «Rapport d’Enquête» reso pubblico nel giugno del 1957. Questo testo fu approvato all’unanimità con una piccola astuzia; ogni gruppo era autorizzato ad aggiungere una “nota di minoranza”, cosa che 4 gruppi fecero. Fra questi, i 6 membri italiani, i quali sottolinearono che fu la persistenza della ventilazione la causa, non dell’incidente, ma del numero elevato delle vittime. In altre parole i responsabili avrebbero dovuto fermare il ventilatore subito dopo aver saputo dell’incendio nel pozzo. Tramite queste “note di minoranza” si capisce che ogni gruppo cercava più di fare prevalere il suo punto di vista (o gli interessi che questo gruppo difendeva), anziché la verità sui fatti accaduti. In Italia, in quegli anni, le risorse di carbone erano agli sgoccioli, le potenze vincitrici lo lesinavano agli sconfitti e la nostra produzione era pressoché nulla. Il misero recupero nel porto di Messina di un carico affondato durante la guerra era già tanto. In Italia vi era molta manodopera e pochissime risorse; in Belgio la situazione era l’opposto. Nel ‘46 infatti i belgi, ricchi di carbone, non volevano fare il lavoro del minatore, perché erano coscienti dei pericoli del lavoro in miniera, tra cui il rischio di contrarre malattie come la silicosi. Il governo belga quindi decise di importare manodopera dall’estero, e molti furono gli italiani ad emigrare, in cerca di fortuna: “imparate le lingue e andate all’estero” aveva detto Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio dei ministri, parlando a San Giovanni in Fiore dal balcone di casa Guglielmo, quando dalla folla assiepata su via Roma, gli veniva prospettato il problema della disoccupazione. Erano anni difficili per l’Italia, uscita distrutta dalla guerra. L’emigrazione era un modo per “esportare” i poveri. Infatti, nel 1946 un accordo bilaterale italo-belga viene siglato per portare duemila lavoratori italiani a settimana a lavorare nelle miniere dei bacini carboniferi di Liegi. Per il nostro governo i vantaggi sono molteplici: le clausole prevedono la possibilità di acquistare carbone ad un prezzo vantaggioso, si fa fronte alla crescente e socialmente pericolosa disoccupazione, valuta straniera giunge ad ingrossare le rimesse degli emigranti ed a puntellare il momento di crisi economica del dopoguerra. Viene così organizzato un efficace reclutamento nelle campagne e nelle città, utilizzando gli Uffici di collocamento, che fanno convogliare i lavoratori nella stazione di Milano dove un treno inviato dal Belgio provvede al trasferimento fino a Liegi. Dopo viaggi estenuanti, che possono durare anche fino a 52 ore, gli italiani vengono alloggiati in baracche di legno, dove precedentemente erano stati sistemati i prigionieri tedeschi e mandati al lavoro il giorno successivo all’arrivo. Per coloro che si rifiutano di scendere nelle miniere l’accusa di rescissione del contratto è immediata e ne segue il rimpatrio con convogli speciali. Nonostante le dure condizioni di lavoro, gli incidenti frequenti e la paga non molto alta, i flussi migratori verso il Belgio continuano per anni e si interrompono solamente dopo la tragedia di Marcinelle del 1956, quando centotrentasei lavoratori italiani muoiono in seguito ad un incendio scoppiato per cause fortuite. E così in quegli anni su 146 mila addetti nel settore minerario belga, figuravano 44mila italiani. Soprattutto lavoratori del Sud, partiti dal Molise, dall’Abruzzo, dalla Basilicata, dalla Calabria, dalla Puglia e dalla Sicilia, ma anche dal Veneto e dal Friuli. Gente che non aveva paura del buio o di tingersi il viso con la polvere di carbone, tant’è che venivano indicati dai belgi come “musi neri”. Da quelle regioni erano sempre emigrati per il resto del mondo con coraggio e dignità, lavorando duro per mettere da parte i soldi necessari per costruire la casa in paese, per comprare un pezzo di terra da coltivare, per sposare le figlie o semplicemente per fare studiare qualcuno dei figli che “prometteva a scuola”. Prima di loro un esercito silenzioso di calabresi era partito alla volta del West Virginia, negli Stati Uniti, trovando lavoro nelle miniere di Manongah dove un incidente analogo era già accaduto nel lontano 6 dicembre 1907, quando nelle miniere di carbone bituminoso numero 6 e 8 si era consumata la più grande tragedia mineraria della storia italo-americana, con la morte di più di novecento minatori, 500 dei quali erano di origine italiana e tra questi 34 erano partiti da San Giovanni in Fiore (Cosenza). Ma quel maledetto giorno di agosto del 1956 a Marcinelle altre famiglie calabresi furono costrette ad indossare il lutto per la morte dei loro congiunti, ripetendo un rito che in Calabria, purtroppo, si è andato manifestando di continuo da San Giovanni in Fiore a Reggio, da Rosarno a Petrizzi, da Petilia a Carfizzi. Nel 2001 è stata istituita ogni 8 agosto la “Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo”. Ma nessuno pagò per quella tragedia, come nessuno pagò più tardi per la tragedia di Mattmark, nel cantone Vallese (Svizzera) che all’ora del vespro del 30 agosto 1965 costò la vita a 108 lavoratori, 56 italiani e tra questi 7 emigrati calabresi partiti ancora una volta da San Giovanni in Fiore, il paese simbolo dell’emigrazione italiana. Emigrati intenti a costruire una diga a sbarramento del fiume Viège mentre dall’Allalin precipitava a valle una montagna di ghiaccio che ne seppelliva le giovani esistenze. Il 1° ottobre del 1959 il tribunale di Charleroi emise un verdetto di assoluzione per gli amministratori e i direttori della miniera: «nessuno è responsabile della tragedia». L’anno seguente, dopo la reazione dell’opinione pubblica e della stampa italiana, nel processo d’appello venne condannato a sei mesi di reclusione un ingegnere. E così, trovato un capro espiatorio, venne chiusa l’intera vicenda. Oggi sul luogo di quel disastro (dichiarato dall’Unesco, patrimonio dell’umanità), è sorto un Museo che ricorda il sacrificio di 863 italiani, tanti ne sono morti negli anni per continuare ad “estrarre più carbone da dare alla Patria” perché le nuove generazioni apprezzino il valore di quegli uomini che hanno pagato con la vita il desiderio di contribuire a fare più grande la loro Patria. Era gente semplice che spinta dalla miseria e della disoccupazione fu costretta a lasciare la propria terra e i propri affetti in cerca di un futuro migliore…
Da: Calabria on Web – 2 agosto 2012