Cinquantotti anni fa, intorno alle 17,17, tremilioni di metri cubi di giaccio si staccarono dalla montagna dell’Allalin, nella Svizzera Francese, precipitando a valle e seppellendo uomini e cose, lungo il cantiere dove era in costruzione la diga di Mattmark. Fu la più grande tragedia sul lavoro dei secondi cinquant’anni del seocolo scorso. I morti furono 88, cinquantasei dei quali erano italiani e tra questi sette di San Giovanni in Fiore, il paese più provato da quell’evento. Oggni nella Chiesa Madre del grosso centro silano, il parroco D. Rodolfo Bruschi ha ricordato i nomi di quegli sventurati lavoratori: Giuseppe Audia (classe 1929), Gaetano Cosentino (classe 1909), Fedele Laratta (classe 1927), Francesco Laratta (classe 1945), Bernardo Loria (classe 1926), Antonio Talerico (Classe 1934) e Salvatore Veltri (classe 1945),. Riportiamo quì di seguito una testimonianza del nostro direttore, che all’indomani della tragedia di Mattmark si recò su quei tragici luoghi in quanto facente parte dei una delegazione comunale inviata sul posto:
“Se ancora oggi socchiudo gli occhi e provo a pensare a quel tragico 30 agosto 1965, sento come allora, il rombo cupo e pauroso delle pale dell’elicottero del Soccorso Alpino Elvetico, pilotato da quell’Angelo delle nevi che si chiamava Geiger. Sorvolava la vallata del Saas, nelle Alpi Svizzere, per controllare se le cime dell’Allalin, il ghiacciaio della morte, si muovessero ancora, seminando altri lutti, magari tra le squadre dei soccorritori. Aveva lanciato dal cielo un liquido giallastro posto ad evidenziare eventuali crepe nel ghiacciaio. Ma quella maledetta montagna si sentiva ormai appagata e si godeva lo spettacolo spettrale, imperterrita. Ero arrivato a Briga, il giorno dopo la sciagura, con una delegazione di amministratori del Comune più provato da quella tragedia e da quel momento ritenuto “Paese simbolo delle sventure meridionali”. Con me c’erano, infatti, Giovanni Pulice (assessore comunale), Giacinto Pugliano e Giuseppe Spina, in rappresentanza della Camera del lavoro. A riceverci un funzionario del Consolato italiano e i volontari della Croce Rosa Svizzera, che ci accolsero con le dovute premure, cominciando a metterci a disposizione un paio di scarponi ciascuno ed una giacca a vento, perché il freddo si faceva pungente, malgrado fossimo solo a fine agosto. Nell’ampio salone della mensa operaia allestita dalla società, in una grande baracca di legno, ai piedi della montagna quei pochi sangiovannesi rimasti ci tennero compagnia. Gli altri erano scappati dalla paura, ma forse volevano semplicemente tranquillizzare i familiari di essere ancora vivi. Il nostro soggiorno si protrasse per qualche giorno, con la speranza che le salme dei sette sangiovannesi sepolte nel ghiaccio potessero essere riportate alla luce, affinché noi potessimo accompagnarle nell’ultimo viaggio. Ne vedemmo solo una, quella di Antonio Talerico, 31 anni, sposato con Rosa Gallo e padre di due figlie, Angela di 6 anni e Maria di solo sei mesi, che non conobbe mai più suo padre. Faceva l’autista pure lui, chiamato tra quella montagna da Fedele Laratta , che aveva reclutato più di un connazionale. Anche lui era partito per guadagnare un po’ di soldi, per poter acquistare a rate un “Leoncino” con il quale pensava di mettersi in proprio per trasportare sabbia e cemento per conto dei muratori impegnati a costruire in paese le case degli emigrati. Le rimesse dall’estero, infatti, hanno dato in quegli anni un grande impulso allo sviluppo urbanistico di San Giovanni in Fiore. Fu uno sviluppo caotico che provocò guasti ambientali più di un terremoto.”
Saverio Basile