DANTE IN CALABRIA?

di RICCARDO SUCCURRO

Nel poemetto “De Gloria Paradisi” Gioacchino da Fiore racconta la visione di un viaggio verso il Paradiso. È la storia di un vir religiosus che, rapito in estasi, vaga per luoghi impervi e desolati per sei giorni. Ogni giorno – riassume Lorenzo Braca nel testo critico pubblicato dall’Istituto Storico per il Medioevo in coedizione con il Centro Internazionale di Studi Gioachimiti - è sottoposto a una diversa tribolazione che lo lascia sempre più stremato ed affranto finché, subite le violenze del sesto e ultimo giorno, muore. La sua anima si separa allora dal corpo e si ritrova davanti a un fiume di fuoco e zolfo sormontato da uno stretto ponte.  Le anime peccatrici che tentano di attraversarlo sprofondano nel fiume, mentre quelle dei giusti passano oltre velocemente e con sicurezza. Al di là del ponte egli vede un enorme muro di bronzo sulla cui sommità scorge un meraviglioso giardino in cui crescono alberi ricolmi di frutti e le anime dei beati riposano serene.  Procedendo oltre arriva alla radice di un monte d’argento. Trova una scala che si inerpica fino alla sommità del monte. Sale la scala ed è così in un altro giardino, più bello del primo. In questo secondo luogo trova le acque del fiume della vita, ripercorrendo le quali giunge fino alla fonte:  il trono divino, posto in un palazzo costruito e ornato di pietre preziose e dal tetto d’oro e di cristallo. Dio è assiso sul trono, davanti a lui ci sono numerosi scranni occupati da anziani intenti a giudicare e davanti a loro migliaia di fanciulli cantano lodi a Dio. In conclusione gli viene spiegato che ha potuto vedere i tre diversi gradi di anime beate disposte nei tre ordini in cui è suddiviso il paradiso: nel grado più basso le anime dei laici coniugati che hanno dedicato la loro vita a Dio; in secondo luogo quelle del clero secolare che, per i loro santi apprendimenti, hanno diffuso il credo cristiano nel mondo; nel terzo luogo, in posizione predominante, le anime dei monaci che fuggirono il mondo in cerca di Dio. La trina turba degli eletti modula canti al Dio uno e trino, esultando nei secoli. Quest’opera è stata anche pubblicata da Francesco Scarpelli, presidente dall’Associazione Abate Gioacchino,  con il patrocinio del Comune di Celico. Il saggio, il commento e la traduzione sono di Raffaele Gaudio, un brillante intellettuale calabrese del primo Novecento. Secondo Gaudio questo poemetto di Gioacchino da Fiore è stato una fonte di ispirazione per Dante: il religioso cammina attraverso luoghi senza vie (o le cui vie erano smarrite)…Linci da una parte (la dantesca lonza), iene dall’ altra gli impediscono il cammino; leoni da una parte (la dantesca apparizione del leone), draghi dall’altra, gli minacciano la morte. Lo storico cosentino Coriolano Martirano, scomparso nel 2019, va oltre Gaudio e in “Il luogo delle anime” ha ipotizzato la presenza di Dante in Calabria, in una Abbazia di Cerenzia. Oltre queste suggestive ipotesi, gli studiosi hanno puntualmente ricostruito l’influenza esercitata da Gioacchino da Fiore su Dante; Marjorie Reeves parla di “debito culturale” del sommo poeta nei confronti dell’ Abate calabrese.

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