All’indomani della tragedia di Monongh, avvenuta il 6 dicembre 1907, che ha provocato la morte di qualche centinaio di minatori periti nelle miniere del West Virginia, dove lavoravano oltre cento sangiovanesi, la maggior parte dei quali periti in quei maledetti pozzi 6 e 8, fu coniato uno struggente appellativo che riguardò le donne di San Giovanni in Fiore, cioè quello di essere indicate come le “vedove bianche” in considerazione del fatto che i loro mariti emigrati all’estero maggiormente quando i lasciassero, per lunghi periodi di tempo, le mogli ad occuparsi dell’educazione dei figli, della gestione della casa e della terra, se non anche degli animali, quando ancora l’asino e il mulo servivano in campagna. Nella lunga odissea dell’emigrazione le donne del nostro paese hanno saputo disimpegnare compiti che un tempo erano di esclusiva pertinenza degli uomini . E così si sono sacrificate al punto tale da mettere da parte anche quegli aspetti di femminilità, caratteristici appunto dell’universo femminile, tanto da sembrare veramente “vedove bianche”. E la cosa si evidenziava mariti travolti dal vortice della nuova vita all’estero, dimenticavano i propri doveri coniugali, tant’é che la letteratura minore ripoprta ancora alcuni significativi messaggi pregni di amore e di passione, ma nello stesso tempo di odio verso le istituzioni e la Malasorte, che avevano determinato l’emigrazione dei rispettivi congiunti. Tra questi abbiamo scelto un canto popolare, molto diffuso nella zona di Savelli, ma fatto proporio anche dalle donne del nostro paese, che solitamente andavano ripetendo un accorato richiamo, per fare ritornare a casa il marito emigrato. L’appello è diretto all’America, questa terra ricca ed ospitale, che però, agli inizi del secolo scorso, ha “rubato” il marito a tante donne della Calabria. “Merica, chi te via arsa re fuocu,/ cuomu re fuocu fa vruscjare a mmie,/ allu miu bene ti llu tieni lluocu/ e llu fa stare luntanu re mie./ Dille si si nde vena o si sta lluocu/ o veramente s’é scordatu e mie;/ dille ca s’addimura n’atru pocu/ l’ossa cce pò trovare e non a mie”. L’autore del canto è anonimo, ma è riuscito a racchiudere in questi pochi versi, tutto il dramma delle nostre donne, le quali si sono ritrovate – appunto – nella condizione di “vedove bianche”, che hanno dovuto salvaguardare l’onore della famiglia, soffrendo in silenzio, senza venir meno ai loro doveri di madri e di spose. Solo per questo un’Amministrazione comunale, sensibile ai problemi dell’emigrazioen, dovrebbe farsi carico di erigere un monumento alle tante “vedove bianche” che in passato hanno popolato il nostro paese.
Saverio Basile
Le foto sono tratte dal volume “Saverio Marra fotografo”, edizione Electra, 1984.