di Gian Luca Potestà
È mancato d’improvviso lo scorso 5 ottobre 2024 il prof. Eugène Honée, storico della Chiesa medievale e della Prima Età Moderna, noto da noi soprattutto per la partecipazione ai Congressi del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti e per le ricerche sulle dottrine di Gioacchino da Fiore, compiute nella fase più matura di una vita di studio intensa e piena di risultati e soddisfazioni. Nato nel 1934 a Meerssen, nei Paesi Bassi, dopo aver studiato filosofia, sociologia e storia, nel 1965 era divenuto assistente di Storia medievale presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Nimega, città in cui fissò la sua permanente residenza. Quattro anni più tardi passava alla Facoltà di Teologia, come assistente di Storia della Chiesa. Nel 1973 vi ottenne il dottorato di ricerca con una dissertazione sulle trattative tra cattolici e luterani al tempo della dieta imperiale convocata da Carlo V ad Augusta (1530). Quel passaggio, cruciale per la fine dell’unità delle Chiese d’Occidente, fu al centro dei suoi studi, a partire dagli anni ’70 e per oltre un ventennio, come attestano saggi, articoli e recensioni, pubblicati in prevalenza nel «Nederlands archief voor kerkgeschiedenis» (“Archivio dei Paesi Bassi di Storia della Chiesa”). Il fuoco delle sue ricerche si concentrò inizialmente sul ventiduesimo articolo della Confessio Augustana (riguardante la questione dell’eucaristia sotto le due specie) e sulle trattative con i luterani condotte dal cardinale Lorenzo Campeggi riguardo alla richiesta della comunione al calice. Ideale coronamento di quella stagione di studi, felicemente compiuta anche grazie al soggiorno di un anno presso l’Institut für Europäische Geschichte di Magonza, fu il volume riguardante Der Libell des Hieronymus Vehus zum Augsburger Reichstag 1530. Untersuchung und Texte zur katholischen Concordia-Politik (Aschendorff, Münster/Westf., 1988). L’opera rappresenta tuttora il principale, insuperato saggio su Vehus, umanista, giurista, canonista, cancelliere del margravio Filippo I del Baden e uomo di fiducia dei principi tedeschi. Avendo ricevuto l’incarico di vagliare la discussa ortodossia delle dottrine di Lutero, Vehus partecipò alla dieta imperiale di Worms (1521), poi a quelle di Norimberga (1522 e 1524) e Augusta (1530). Qui cercò di tenere aperti i canali di comunicazione tra principi e Chiesa romana, trovando nel cardinale Campeggi un uomo dai gusti intellettualmente affini ai suoi e forse anche per questo un interlocutore disponibile al dialogo, in vista del (fallito) recupero della concordia ecclesiastica. Accanto alle ricerche sulle grandi dispute religiose del XVI secolo, negli anni ’90 Honée compì studi sul missionario anglosassone Villibrordo, evangelizzatore tra VII e VIII secolo della Frisia (provincia settentrionale dei Paesi bassi). Nel frattempo, era diventato professore ordinario di Storia della Chiesa presso l’Alta Scuola Cattolica di Teologia (divenuta poi Università Cattolica) di Amsterdam, di cui fu anche rettore nel 1989-1990. Avvenuta la fusione tra le Facoltà teologiche cattoliche delle Università di Amsterdam e Utrecht, passò alla sede di Utrecht, dove rimase fino alla pensione (1999). Coinvolto nella stagione conciliare e nel movimento postconciliare della Chiesa olandese, fece parte della cerchia di amici e amiche legati a Edward Schillebeeckx, il celebre teologo domenicano formatosi a Le Saulchoir con Chenu e Congar, ritiratosi a fine carriera proprio a Nimega. Il pensionamento segnò per Honée l’inizio di una stagione di ricerche del tutto nuova, che lo ha tenuto impegnato fino alla vigilia della morte. Con curiosità, umiltà e coraggio si dedicò a Gioacchino da Fiore. Considerato con un certo sussiego da alcuni studiosi da tempo impegnati nel campo degli studi gioachimiti, fu invece apprezzato da chi ne riconobbe la libertà di giudizio, unita al rigore metodologico, alla capacità di interpretazione di fonti dottrinalmente dense e di controversie trinitarie raffinate e impervie. La freschezza dello sguardo lo spingeva a formulare ipotesi ardite; l’equilibrio e la lunga esperienza lo inducevano d’altronde a misurarsi con rispettosa cautela con questioni già tante volte discusse da altri. A nuove e decisive proposte giunse attraverso un prolungato e approfondito confronto con i testi scritti e i diagrammi di Gioacchino e un serrato confronto con la storiografia più accreditata. A S. Giovanni in Fiore lo si vide per la prima volta nel 1999 nei pressi del leggendario Hotel Dino’s, Era venuto per seguire i lavori del V Congresso, su cui pubblicò poi un ampio resoconto. Un primo approccio diretto all’abate calabrese è testimoniato da un precedente articolo, riguardante la sua visione della storia posta a confronto con quella di Agostino. A seguito del primo viaggio in Calabria (vi ritornò più volte, l’ultima per seguire il IX Congresso, nel 2019) si dette intensivamente allo studio dei suoi scritti. La questione che lo prese fin dall’inizio e alla cui soluzione resterà legato il suo nome riguardava la condanna di un’opera dell’abate decretata a conclusione del Concilio Lateranense IV. La storiografia si era profondamente divisa riguardo sia agli effettivi artefici della condanna, sia all’identità stessa del testo, indicato in Damnamus igitur come un libello de unitate seu essentia trinitatis. La convinzione dominante agli inizi di questo secolo era che l’opera in questione non fosse altro che una prima redazione del De contemplatione (1183-1184), ovvero del trattato poi confluito nello Psalterium decem chordarum, come suo I libro. Honée confutò tale tesi in modo convincente, mostrando che il decreto conciliare aveva colpito un’opera prodotta anteriormente e andata poi perduta (o, più verosimilmente, distrutta a seguito della condanna). Unica traccia di essa: le figure di una tavola del Liber figurarum (conservata dal solo codice di Dresda, Sächsische Landesbibliothek, cod. A 121, c. 89r), miranti a mostrare la perfidia delle dottrine trinitarie di Ario, Sabellio e Pietro Lombardo. Per motivi non ancora chiariti, Gioacchino aveva accantonato il De unitate (mai citato come tale in altri suoi scritti), sostituendolo con il nuovo trattato trinitario steso a Casamari. Honée propone per la prima volta nel 2006 la propria tesi innovativa e la ribadisce nella lunga presentazione e discussione critica della mia biografia intellettuale di Gioacchino. Ci eravamo conosciuti durante il Congresso del 1999: la singolare figura dello sconosciuto viaggiatore olandese, arrivato a S. Giovanni senza preavvertire nessuno, aveva destato curiosità e simpatia. Negli anni successivi si costruì tra noi una solida e profonda amicizia. Eugène mi confidò più tardi che era rimasto colpito nel ritrovare all’inizio del mio libro un paio di frasi di Maurice Merleau-Ponty, che avevo scelto come exergo perché mi erano parse calzanti per la vicenda intellettuale di Gioacchino («L’accento di verità non vibra mai così a lungo come quando l’autore interpella la sua vita. Le filosofie del passato durano con la loro verità e le loro follie come imprese totali, o non durano affatto»). Gli erano parse indizio di una sensibilità comune: Eugène era infatti un appassionato lettore di Merleau-Ponty, al punto da averne pubblicato in gioventù la traduzione olandese dell’Elogio della filosofia. Negli anni successivi ebbe modo di ribadire e precisare un paio di volte (Bibliografia, 6 e 9) la sua tesi sulla condanna di Gioacchino. La prima fu in occasione del VII Congresso di Studi Gioachimiti (2009) cui fu invitato come relatore. Per prepararsi all’evento, il settantacinquenne professore di Nimega si era recato qualche mese prima a Milano, per frequentarvi un corso intensivo di lingua italiana della durata di due settimane. Conosceva già la lingua per aver trascorso periodi di studio presso l’Istituto Storico Olandese in Roma. Il soggiorno milanese gli permise di progredire; alla fine scelse però di tenere la relazione in tedesco, la lingua straniera in cui si sentiva più a suo agio. La musica classica e la musica sacra erano, credo, la sua prima passione, coltivata con sensibilità e competenza. La lettera in cui mi dava notizie sul soggiorno milanese appena concluso si apriva con il ricordo entusiastico di una serata alla Scala in cui aveva potuto ascoltare l’Italienisches Liederbuch di Hugo Wolf nell’interpretazione del mezzosoprano Monica Bacelli, accompagnata al pianoforte da Antonio Ballista. E a quanto mi ha scritto a fine settembre di quest’anno, il momento culminante dell’ultimo viaggio all’estero (Amburgo, estate 2024) è coinciso con la visita della Elbphilarmonie e con l’ascolto, in quella spettacolare sala da concerto, della Mahler Jugendorchester. Dal matrimonio con Marijcke van Zijll de Jong (1966), psicologa, saggista e anch’ella docente universitaria, sono venuti cinque figli e numerosi nipoti. Quando fui loro ospite a Nimega, nel 2015, la casa era ormai abitata dai soli Eugène e Marijcke. Da lì Eugène se ne partiva per lunghi giri in bicicletta nei boschi poco distanti. La bicicletta era, che io sappia, l’altra grande sua passione. Sempre ben allenato, fino ad anni recenti aveva partecipato a lunghe e impegnative escursioni in compagnia di altri ciclisti ben più giovani, non senza preoccupazioni per i suoi familiari. Con il passare degli anni era poi diventato un pioniere della bicicletta servoassistita, infine era passato a un nuovissimo modello a tre ruote. Lo aveva ancora inforcato nel freddo venerdì di vigilia della morte. Su di esso lo immaginiamo salire leggero, con il suo sorriso accogliente e incoraggiante.